L’epigenetica afferma che il 90% delle nostre risposte agli accadimenti della vita sono di carattere reattivo e non attivo. Il modello educativo, il contesto culturale, il “campo” nel quale siamo cresciuti, determinano in modo dominante la qualità delle nostre azioni. Noi, secondo questa visione, non siamo che la somma dei condizionamenti assorbiti dall’ambiente in cui siamo cresciuti. Se prendiamo per buono questo assunto, va da sé che anche le risposte che diamo alle tematiche con cui ci confrontiamo in una seduta sono suscettibili di questo condizionamento. Rischiano di essere il frutto delle nostre proiezioni, a loro volta poco attinenti anche alla nostra reale natura.
Ogni modalità operativa è caratterizzata da una specificità che possiamo definire tecnica. La tecnica caratterizza e definisce in modo riconoscibile ogni modalità di relazione corporea. Ognuna di queste ha le proprie peculiarità e specificità, tuttavia sono delle astrazioni senza qualcuno che le esegua. Aderenti come siamo al modello maschile, quello a cui assistiamo sempre più è l’esaltazione della tecnica. Il prezzo che si paga è la perdita nell’equilibrio dei ruoli nella relazione o, addirittura, della relazione stessa. C’è chi sa o presume di sapere e quindi fa, e chi invece passivamente subisce. E’ una sorta di delega a qualcuno o, come nel caso dell’uso di farmaci, a qualcosa rispetto a un tema che non si sa o non si vuole guardare. In questo modello poco importa se il cliente viene sempre più depredato del suo potere personale, della fiducia nelle proprie risorse, del valore insito nel processare quel tema.
Quante volte ci siamo sentiti frustrati dall’aver subito atteggiamenti di questa natura? La modalità biodinamica opera nella direzione dell’empowering, cioè nella valorizzazione delle risorse e delle capacità del cliente di trovare la propria strada e nel sostegno di queste qualità. L’ascolto neutrale apre spazi nuovi a nuove soluzioni, a nuove organizzazioni che permettono di riconoscere gli impedimenti che mettiamo alla naturale espressione della vita. L’approccio biodinamico non può prescindere dall’operatore e dalle qualità che mette in gioco e che costituiscono la relazione stessa.
E’ già stato detto che, quando l’applicazione della tecnica è l’aspetto dominante, l’importanza della qualità dell’operatore è meno influente. Ricordo, giusto per non dimenticarcene, il suggerimento che ci proviene dall’epigenetica: noi non siamo chi pensiamo di essere, ma la somma dei processi attraverso i quali siamo passati nel percorso della nostra esistenza. Quello che noi siamo è quello che offriamo. Diventare sempre più consapevoli delle nostre dinamiche relazionali, siano esse di carattere operativo o più riferite alla propria capacità di accogliere la persona valorizzandone tutta la sua biografia, diventa essenziale. Lasciare spazio, condizione fondamentale da cui sorge il cambiamento, presuppone non solo tenere una “distanza” idonea a livello fisico, evidente nella craniosacrale dal modo in cui si appoggiano le mani o nello shiatsu dal modo in cui si porta la pressione, ma anche e forse soprattutto togliere i propri pregiudizi, le proprie opinioni di come le cose dovrebbero essere o vorremmo che fossero. I nostri pensieri, le nostre intenzioni occupano spazio. Accedere alla neutralità è dare spazio.
“Essere ascoltati è essere guariti”
Questa è un’esortazione con cui introduce i suoi seminari uno dei più autorevoli rappresentati attuali della biodinamica: Mike Boxhall. La biodinamica non è una tecnica, è un’attitudine, un modo di essere. La capacità di ascoltare non è una qualità comune e presuppone il sapersi ascoltare. E’ comunque una qualità applicabile a qualunque tecnica e in ogni momento. A ognuno il compito di esplorarne l’efficacia (a partire forse dall’esperienza suggerita qui) e a prescindere dalla propria modalità operativa. Potremmo veramente rimanere sorpresi dall’efficacia di questo ascolto, se solo ci permettessimo di provare.